Innovare nella bellezza significa avere un’anima pirata, fare esperienza, non soggiacere alle resistenze del mondo, alla sua presunta immodificabilità: ciò che è creativo, nuovo, bello implica plasticità, orgoglio, immaginazione, senso profondo della relazione.
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Il latinista Ivano Dionigi coagula l’umano attorno a tre verbi: Intelligere, Interrogare, Invenire (Osa sapere, Solferino 2019).
Intelligere, come capacità di lettura del mondo, di connessione tra gli elementi, di sutura delle ferite provocate dall’accidia, dalla pigrizia del pensare;
Interrogare, come arte del domandare, del porre domande giuste per far fiorire risposte corrette. Da qui scaturisce la decisione efficace del Manager: "Le risposte giuste sono la conseguenza di domande giuste" (Peter F. Drucker, The Practice of Management, Harper and Row, 1954;
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Invenire, come abilità creativa di trovare quanto di prezioso abbiamo accantonato o dimenticato, ma anche quanto di nuovo ci viene richiesto per dare un nome rinnovato alle cose, sempre nel segno del bello.
Il Manifesto del Manager della Bellezza si alimenta di queste voci verbali:
1. Produrre Bellezza, avere un’Anima Pirata, dal greco peirao, “provo, esperimento, assaggio”, stessa radice di esperienza. Insomma, fare della pirateria esistenziale, tradurre, testimoniare la propria vocazione come esercizio di Bellezza, di Innovazione, anche là ove il mondo sembra resistere, sempre ergendosi nella sua rocciosa impenetrabilità.
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2. Valorizzare l'Arte come attenzione al dettaglio, la cosiddetta "Eccellenza d'Impresa" di Tom Peters (1985), in cui non di rado abita l'essenziale. Nel contempo, coltivare la letteratura come sguardo universale sull'uomo, le cui specificità si ritrovano poi nei contesti quotidiani cui relazionarsi già fecondati dalle pagine letterarie. Sono queste dimensioni dello spirito che irrobustiscono l'immaginazione, senza la quale ci si limita al rigore di un bilancio, senz'anima, senza visione (M. Nussbaum, Non per profitto, Il Mulino 2013);
3. Fare dell’orgoglio il riconoscimento secondo misura del proprio talento, del proprio carattere, dal greco charassein, “imprimere, incidere, scavare”. E’ orgoglioso quel manager che ha carattere, che sa incidere nella vita con la propria Bellezza, con le proprie qualità, la propria tensione creativa, generosa, sovrabbondante di bene comunitario;
4. Rifiuto nei confronti di ogni forma del cosiddetto sano realismo, spesso identificabile con il cinismo, oppure con la rassegnazione nei confronti di una realtà ritenuta intimidatoria, immodificabile. Pur nella nostra fragilità, abbiamo le risorse per trasformare l’esistente, per esercitare la nostra presa sul mondo, per innovare, per dare respiro alla nostra vocazione. Con i versi di Mariangela Gualtieri: “ Noi siamo nel respiro. Attraversiamo ancora”;
5. Avere una mente plastica, non flessibile. La flessibilità coincide spesso con la docilità alle idee e alle prassi eterodirette, ai conservatori del cosiddetto sano realismo, ai dispensatori di innovazione e bellezza a corto raggio. La plasticità, come ci insegnano le neuroscienze, è la capacità che abbiamo di rimodulare, riorientare la nostra mente sulla base degli impulsi del mondo, per poi tornare al mondo stesso trasformandolo a fondo sulla base della nostra creatività;
6. Fare della relazione l’architrave dell’agire. Un punto essenziale, di cui diamo particolare contezza nelle righe che seguono.
Friedrich Hölderlin, una delle voci poetiche più alte di ogni tempo, fissa il punto con versi luminosi:
Molto ha esperito l’uomo.
Molti Celesti ha nominato,
da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro.
Il poeta ci dice che non siamo semplicemente linguaggio, bensì colloquio, comunichiamo per essere ascoltati, riconosciuti, accolti.
Le stesse neuroscienze ci dicono che l’intersoggettività, la relazione, è già presente a livello intrauterino, è costitutiva dell’umano.
Tuttavia, non appena proviamo a stringere questo fatto di accecante evidenza, ci accorgiamo quanto sia arduo porlo a tema.
Nello specifico:
La relazione implica l’alterità dell’altro, che è sempre una x, un’incognita, poiché l’altro, ogni volta che tentiamo di ricondurlo alle nostre categorie, subito ci sfugge. L’altro è un segreto infinito, mai perimetrabile, misurabile, colonizzabile sulla base delle logiche padronali del nostro io;
Quale dismisura assoluta, l’altro non è un nostro possesso ma, semmai, colui che irrompendo nella nostra scena umana ci inquieta, ci disorienta con la sua richiesta di riconoscimento, tra accoglienza e ostilità, apertura e conflitto;
L’altro non lo cogliamo nella prossimità, sovente impositiva e violenta, in cui viene ridotto a un nostro adombramento, una nostra fotocopia, ma nella distanza, nel rispetto della sua alterità, del suo mistero che sempre reclama un accostamento pudico, soprattutto della sua fragilità che è anche la nostra;
Quando nelle aziende si parla di “spirito di squadra”, di senso di appartenenza, non si sottolinea mai a sufficienza che questa appartenenza implica una coesistenza di alterità, di volti assolutamente improgrammabili, innumerabili, inclassificabili. Riconoscere questo significa non dare per scontato l’altro ma vederlo come portatore, in qualsiasi momento, in modo spesso inatteso, della carta che spariglia, dell’idea innovativa, del sussulto di bellezza che scompagina, disarticola i modi di procedere sterili, stantii, improduttivi;
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Tutto questo è ben presente nel padre del Management premoderno H. Fayol: "L'unione fa la forza... l'armonia, la coesione, tra il personale, è una forza poderosa nell'impresa.... dividere le forze nemiche... è cosa abile, ma dividere le proprie truppe è commettere una grossa colpa contro l'impresa". (Administration Industrielle et Générale, Dunod, 1925).
Attribuzione: foto di Henry Fayol, fonte immagine by Sconosciuto - early 20th century photograph (first version found online at centre-histoire.sciences-po.fr, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1503102
Se è vero che la scelta del manager avviene sempre nella solitudine, come ogni scelta, è altrettanto vero che viene preparata dal confronto con gli altri. In questo senso, soprattutto i timidi, i più sensibili, possono sempre rendere questa scelta meno faticosa, più creativa, meno lacerante sul piano delle inevitabili conseguenze. Sono proprio i timidi che hanno le qualità più raffinate per sparigliare le carte, per tracciare la strada dell’innovazione nella Bellezza.
In conclusione, per essere Manager della Bellezza, per esser Manager Pirata, occorre essere consapevoli che nella formazione manageriale, aziendale, non sono i corsi prettamente tecnici a fare la differenza, di cui peraltro sappiamo già molto, bensì quelli centrati sulla filosofia della relazione. Poiché l’economia, tutta l'economia, è relazione, rispetto, empatia, conflitto, perseveranza, scelta, solitudine, coraggio, rischio, orgoglio, errore, temperanza, ecc.. Tutti concetti filosofici, che aprirebbero davvero scenari produttivi nel segno della creatività e della Bellezza, poiché ognuno si sentirebbe accolto nella sua vocazione, nel contributo di idee che può portare, come nella sua ineludibile fragilità.
Ed è proprio a partire dal riconoscimento di questa fragilità che il manager della bellezza può attivare tutta la sua creatività, per farsi non solo centro di resistenza nei confronti dei naturali ostacoli del mondo ma promotore dinamico di scenari nuovi, vitali, fecondi.
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